Partendo dall’idea che l’artista “non è né uomo né donna ma appartiene al mondo” all'Accademia di Macerata una mostra sui generis, oltre il “genere”.
Negli spazi della GABA.MC, la galleria dell’Accademia di Belle Arti di Macerata, la mostra Men, only men, simply men apre la seconda fase del progetto espositivo triennale immaginato dal
direttore artistico Antonello Tolve a partire dalla frase di Tomaso Binga, secondo la quale l’artista «non è né uomo né donna ma una persona senza età, senza nazionalità: appartiene al
mondo».
Con un allestimento leggero e aeriforme, giocato sull’alternanza di vuoti e pieni, la collettiva rompe ogni linearità spaziotemporale in favore di un disordine ragionato, armonico e ordinato,
capace di offrire uno sguardo sul vivace fermento creativo che popola l’arte italiana degli ultimi decenni. È esemplificativa, in tal senso, la prima sala, dove la pittura analitica di Antonio
Passa dialoga con le sinuosità dei corpi fotografati da Andrea Chemelli, o dove l’assemblaggio di scatole di latta pressate di Flavio Favelli affianca il rampicante in plexiglass, pvc e rame di
Filippo Centenari. A testimonianza di una inaspettata e pacifica convivenza tra registri linguistici differenti, il delicato modulare di Paolo Gobbi entra in contatto con il vivace smalto su
vetro di Pierpaolo Lista e con le dense pennellate di Gianluca Capozzi, la scultura in ferro verniciato di Ivano Troisi lascia il posto alla Lavagna Cromatica di Pierpaolo Marcaccio, le tonalità
scure di The Year Without Summer, la stampa di Lamberto Teotino, richiamano quelle della scultura interattiva di Giuseppe Stampone e al contempo bilanciano il candore delle opere di Adrian
Tranquilli, Domenico Antonio Mancini e Lello Lopez.
Il trait d’union tra la prima e la seconda sala è dato da un lavoro storico di Pino Pinelli, che – in un immaginario passaggio generazionale – dirotta l’attenzione verso l’ascia#2 tratta dalla serie dei Corpi defunzionali di Iacopo Pinelli, uno dei più giovani artisti in mostra. Al contempo la grande tela figurativa di Mauro Evangelista apre un ragionamento sulle possibili declinazioni del segno e del colore, a cui partecipano anche Paolo Bini, Maurizio Meldolesi, Marco Raparelli ed Enrico Pulsoni, le cui tavole fluttuanti trovano il proprio corrispettivo spaziale nei taglienti caratteri di acciaio con cui Cristiano Berti compone Incubo Succubo. Viceversa, a terra, il discorso si sposta sul versante scultoreo e si manifesta con l’acceso contrasto materiale e concettuale che si attiva tra il lavoro in marmo arabescato e acciaio corten di Antonio De Marini, quello in resina e metallo di Luca Cerioni e i quattro straordinari modelli illustrativi del processo di ideazione dell’opera Rette di Luce nell’Iperspazio Curvilineo realizzati da Maurizio Mochetti.
Anticipato dall’olio di Andrea Savino, il percorso prosegue poi lungo un corridoio articolato in tre momenti distinti e consecutivi: subito a destra il bozzetto
progettuale di Gian Maria Tosatti e il disegno di Maurizio Quarello accompagnano la proiezione di Quale Educazione per Marte di Valerio Rocco Orlando, mentre a sinistra Misura palmo sinistro a 77 anni di Paolo
Icaro, il collage su carta di Giuseppe Pietroniro e la Pietra Filosofale di Vettor Pisani entrano (senza mai,
di fatto, interromperlo) nel perimetro d’azione del circolo tautologico di pensiero messo in campo da Fabrizio Cotognini. Il terzo spazio infine chiama in causa l’antico conflitto tra
naturalia e artificialia per
centrare l’attenzione sulle investigazioni di Giuseppe Tabacco, su quelle biotecnologiche di Luigi Pagliarini, e su quelle dedicate alla maceria, a ciò che resta, attuate (da prospettive
totalmente differenti) da Ciriaco Campus e da Giovanni Termini. Riflessioni, queste, che si collegano inevitabilmente anche al piccolo e prezioso lavoro di Antonio Della Guardia, al cubo di
cenere pressata di Benito Leonori e al lavoro in polistirene di Giulio Cassanelli.
Il pluralismo linguistico domina anche l’ultimo spazio espositivo, dove, le due grandi installazioni di Eugenio Tibaldi e Giovanni Scagnoli, la scultura di Salvatore Sava, l’opera tessile di
Giovanni Gaggia e Spigolangolo di Bruno Conte creano entusiasmanti riflessi e rapporti di partecipazione, con le opere di Andrea Chiesi, Piero Ceccaroni, Alessandro Sarra e Francesco Parisi,
attraverso le quali torna il discorso sul segno avviato nella seconda sala e mai concluso.
Planando con ironia sulle paludi del mero sessismo – non è un caso che il titolo insista sulla ripetizione della parola uomini e che tutta l’impaginazione grafica sia giocata sulle tonalità
del rosa – la mostra evidenzia la «volontà di varcare la semplicistica etichetta “di genere” per presentare un progetto lontano dalle mode del momento» che, scrive Tolve, hanno «generato un
mostrificio senza contenuti», riaffermando – attraverso il lavoro di cinquanta artisti e un componimento poetico di Nanni Balestrini – la libertà di «evidenziare l’importanza dell’arte italiana
in un mondo curatoriale sempre più diffusamente imprigionato nei recinti delle insensate e ottuse esterofilie o nel lenocinio commerciale».
Giulia Perugini